mercoledì 3 giugno 2015

Quando noi italiani migravamo in massa in Libia attraversavamo il Mediterraneo a bordo di cacciatorpediniere e corazzate. I nostri scafisti si fregiavano del titolo di ammiraglio, capitano di vascello ecc.  A partire dal 1911 i nostri migranti, messo piede a terra,  si trasformavano in combattenti che non disdegnavano fucilazioni in massa, bombardamenti, rastrellamenti, deportazioni. Diventate regolarmente spietate con l’avvento del fascismo. I flussi migratori, chiamiamoli così, avevano il compito di costruire l’impero. Il che voleva dire annientamento di  ogni resistenza, sottomissione delle popolazioni anche attraverso il bombardamento con i gas e i campi di concentramento.

             Il mio solo tormento / l’impotenza / il castigo / di subire la vita / e di non viverla / gli uomini migliori della tribù / sono oggi considerati come / miserabili degenerati.   Il mio solo tormento /i cuori spezzati/ queste lacrime che sgorgano/ dai nostri uomini imprigionati/ dalle famiglie dimenticate/ abbandonate/ alla loro sorte.

Un canto in trenta strofe brevi che Rajab Abuhweish  [in francese traslitterato come  Rajab Bou Houaiche] recita mentre è detenuto nel campo di concentramento di El Agheila sul golfo della Sirte, al confine tra Tripolitania e Cirenaica. Vi è arrivato dopo essere stato deportato con una marcia della morte di più di 400 chilometri attraverso il deserto. Lui e tutto il suo clan. Era membro della tariqa-confraternita dei Senussi che aveva già dato filo da torcere sia ai francesi sia, e ancora di più, agli italiani.  Apparteneva al clan al-Manifi, il medesimo di Omar el Mukhtar, il “leone del deserto”, impiccato dagli italiani nel 1931 dopo un processo farsa.

            Le testimonianze raccolte da Eric Salerno [Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana, 1911-1931, Manifestolibri, Roma, 2006]  non lasciano spazio alla benevolenza: Ogni giorno uscivano da el Agheila cinquanta cadaveri. Venivano sepolti in fosse comuni. Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li contavamo sempre. Gente che veniva uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che morivano di fame o di malattia.

Di solito quelli che cercavano di scappare, giovane, vecchio o bambino che fosse, venivano presi e messi al centro del campo. Gli veniva buttata della benzina addosso e tutti dovevano essere presenti a guardare.

 

              Un avventuroso giovane danese, Knud Holmboe, si prefigge di attraversare in auto il Nord Africa da ovest ad est. E ci riesce, nel 1930. Conosce bene l’arabo e i suoi dialetti, è diventato musulmano. Ama gli arabi, ma non esita a denunciarne le ingiustizie così come riconosce la straordinaria umanità di alcuni ufficiali italiani che incontra. Ma Il paese è un bagno di sangue…Nel periodo che trascorsi in Cirenaica avevano luogo trenta esecuzioni al giorno e questo significa che ogni anno vengono giustiziati 12.000 arabi… I pozzi vengono cementificati per impedire di abbeverare gli animali. Il suo libro, Incontro nel deserto, è stato sempre proibito in Italia. Era stato pubblicato nel 1931, che è anche l’anno della sua misteriosa uccisione nel golfo di Aqaba. Verrà tradotto in italiano nel 2005  da E. Kampmann per l’editore Longanesi.

             Ma bi marad’ – Il mio solo tormento è ripetuto 26 volte nel poema secondo una recitazione ritmica rigorosa. Oggi sarebbe un rap.

Il mio solo tormento / perdere la mia dignità/ in una età avanzata e / dovermi separare / dai nostri uomini migliori / nostro bene più prezioso.

E’ in prima persona, ma esprime il dolore di un popolo, è una elegia, rithā, che lamenta l’esilio e trova nella lingua il suo rifugio. Nel frastuono del campo, tra le migliaia di voci, il canto del poema è anche una testimonianza, una fonte di storia che scavalca il filo spinato che recinta  le tende.

 

            Ne è appena uscita una versione in francese, con testo arabo a fronte, a cura di Kamal Ben Hameda, Le livre du camp d’Aguila [elyzad, Tunisi, 2014]. 

Una ricercatrice dell’Università di Copenhagen ne ha fatto, verso per verso,  una approfondita analisi e traduzione in inglese [Safia Aoude,  A Literary Analysis of Rajab Abuhweish’s Lybian Poem “My only Illness” in the Light of Its Time,

2014, scaricabile qui  

http://www.academia.edu/7415654/A_literary_analysis_of_Rajab_Abuhweish_s_Libyan_poem_My_Only_Illness_in_the_light_of_its_time ] e uno studioso di origini libiche, ora docente all’università statunitense del New England, Ali Abdullatif  Ahmida, ne dà un’altra versione inglese nel suo importante libro Forgotten Voices: Power and Agency in Colonial and Postcolonial Libya 

[Routledge Press, 2005]. 

 

Il suono di questa poesia non è mai giunto alle nostre orecchie italiane.

 

 

Una lettura/cantilena in arabo del poema:

https://www.youtube.com/watch?v=3R2hXqgQMHw

Fanno riferimento al campo di El Agheila:

Nicola Labanca, La guerra italiana in Libia, 1911-1931, Il Mulino, 2012

Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1986 al 1939, Gaspari, 2009,  

Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia, 2 voll, Mondadori, 1997

Sul numero 27/2000 della rivista Studi Piacentini Graziano   Kratli  parla del libro di Knud Holmboe, Un viaggiatore danese e musulmano nella Libia del generale Graziani .

http://claudiocanal.blogspot.it/2015/06/ho-pubblicato-su-il-manifesto-3-giugno.html