19/5/2017
Le fasi evolutive del coordinamento alla sicurezza. Seconda parte dell’analisi di Alaa Tartir che spiega cosa è accaduto dal 1993 ad oggi e i suoi effetti distruttivi nella società e nella politica in Cisgiordania
Poliziotti palestinesi durante un’operazione (Foto: COPPS)
Ramallah, 19 maggio 2017, Nena News – (qui la prima parte). Le percezioni pubbliche negative sul coordinamento alla sicurezza sono rafforzate da esperienze dirette – dalle quali le élite sono esentate – così come dalla retorica ufficiale e dai contenuti dei Palestine Papers.
Ad esempio, il generale Usa Dayton sottolineò nel 2009 che i comandanti dell’esercito israeliano gli avevano chiesto, riguardo alle forze di sicurezza palestinese che stava addestrando: “Quanti altri di questi nuovi palestinesi puoi creare? E quanto velocemente?”. Disse poi che un ufficiale palestinese aveva affrontato uno di questi “nuovi palestinesi” laureandi in Giordania dicendogli: “Non sei stato mandato qui per imparare a combattere Israele. Ma per imparare a mantenere legge e ordine, a rispettare il diritto di tutti i nostri cittadini e ad implementare lo Stato di diritti così che possiamo vivere in pace e sicurezza con Israele”.
E nel 2013, in un discorso davanti al parlamento europeo, il presidente israeliano Shimon Peres disse: “È stata formata una forza di sicurezza palestinese. Voi e gli americani l’avete addestrata. E ora lavoreremo insieme per prevenire terrore e crimine”.
Mentre il coordinamento alla sicurezza si cementava da Oslo in poi, lo status quo non è una conclusione scontata. Tuttavia il cambiamento sarà difficile da archiviare visto che il sistema ha creato un segmento di società palestinese che intende mantenerlo. Questo segmento è composto non solo dal personale della sicurezza in Cisgiordania e a Gaza, ma anche da quei palestinesi che beneficiano degli accordi istituzionali e della rete di collaborazione e dominio.
Lo status quo è per loro un beneficio e la “stabilità” un mantra. Sono impegnati verso un approccio che privilegia l’élite politica, economica e della sicurezza e non hanno incentivi a modificare le regole del gioco.
Ogni tentativo di interrompere il coordinamento alla sicurezza avrebbe dunque conseguenze reali per l’Anp e la sua leadership. Eppure la perpetuazione dello status quo è distruttiva per la maggior parte dei palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana e per i palestinesi in generale. Con la distruzione della capacità di correggere gli errori politici e di responsabilizzare le élite, il business continuerà come al solito. Il coordinamento alla sicurezza resterà una caratteristica fondamentale di una realtà alterata che favorisce l’occupante, a meno che non vengano prese al più presto delle misure.
Reinventare la dottrina della sicurezza dell’Anp
Il rafforzamento della struttura della sicurezza dell’Anp richiede interventi politici a livelli multipli, dalla correzione della retorica di parte alla creazione di meccanismi di responsabilità. Le seguenti raccomandazioni, diretti a diversi stakeholder, propongono una revisione delle operazioni e le strutture delle forze di sicurezza dell’Anp.
L’Autorità Palestinese
L’Anp deve ascoltare il popolo palestinese e rispettare i suoi desideri e le sue aspirazioni, comprese quelle sul dominio della sicurezza; altrimenti il gap di legittimità e fiducia crescerà sempre di più. Non c’è mai stato un sistema politico palestinese inclusivo, ma una leadership più reattiva, rappresentativa e responsabile assicurerebbe che la sicurezza dei palestinesi, invece che quella dei loro occupanti e colonizzatori, diventi una questione centrale.
Un autentico settore della sicurezza, come affermato da Tariq Dana, significherebbe la fine del “focus sul controllo interno conosciuto come Dottrina Dayton” e “un programma che preveda responsabilizzazione e giustizia”.
Come elaborato da Hani al-Masri, questo richiederebbe misure graduali ma ferme per congelare o sospendere il coordinamento alla sicurezza: mettere fine all’intervento dell’apparato di sicurezza palestinese nelle questioni politiche; ridurre il budget per la sicurezza; eliminare parte dell’apparato alla sicurezza e ristrutturare il restante con un enfasi su professionalizzazione, patriottismo e libertà dal nepotismo politico; addestramento dell’apparato per resistere ai raid israeliani in Area A.
Sebbene l’Anp affermi ancora che gli attuali accordi e la divisione del lavoro serve alla soluzione a due Stati, la colonizzazione israeliana senza sosta delle terre palestinesi fa sì che l’Anp e la sua leadership debbano rivedere la loro funzione. L’imminente minaccia di annessione dovrebbe spingere l’Anp a prendere misure prima che il suo ruolo di subappaltatore dell’occupazione si solidifichi.
Società civile palestinese
Le organizzazioni della società civile palestinese, in particolare quelle per i diritti umani, devono formare coalizioni maggiormente efficaci e intensificare gli sforzi per punire le violazioni dell’Anp e della sua leadership politica e militare. In assenza di istituzioni che facciano da peso e contrappeso, la pressione che va oltre lo scrivere e il pubblicare rapporti (anche se si tratta di azioni importanti) è urgente. In altre parole, la società civile palestinese deve sviluppare azioni pratiche per affrontare le continue violazioni dei diritti commesse dall’Anp.
Gli attori della società civile (istituzioni accademiche, intellettuali e think tank) devono inoltre affrontare il fallimentare discorso dell’Anp per il quale la resistenza palestinese è bollata come insurrezione o instabilità. Anche gli attori israeliani e internazionali che usano questo discorso dovrebbero essere affrontati.
La società civile deve abbracciare e rendere operativa la resistenza invece di assistere alla sua criminalizzazione e considerarla come un modo di vivere comprensivo sotto occupazione e in esilio. La resistenza come modo di vivere può aiutare a ribaltare il ritratto che ne fanno attualmente le élite politiche e della sicurezza. La resistenza può dunque garantire il ripristino dei valori e degli ideali fondamentali che permettano ai palestinesi di agire collettivamente per i propri diritti.
Attori esteri, in particolare Eupol Copps e Ussc, hanno bisogno di uno scrutinio serio da parte della società civile, sia in Palestina che nei paesi di origine. Non possono continuare a dominare il regno della sicurezza senza assumersene la responsabilità né essere trasparenti. Promuovendo lo Stato di diritto in un contesto autoritario, questi corpi contribuiscono alla “professionalizzazione” delle pratiche autoritarie attraverso l’abuso della buona governance.
La loro rivendicazione per cui il mandato è “tecnico” gli permette di sottrarsi ai risultati politici delle loro operazioni. Dopo un decennio di operazioni, è tempo di condurre una valutazione palestinese indipendente di questi enti e usare meccanismi di responsabilizzazione per riformare questi “riformatori” e decidere la via da qui in avanti.
I donatori e l’industria dei finanziamenti
In un contesto altamente dipendente dagli aiuti, la supremazia di “securizzazione” e militarizzazione si estende al regno dello sviluppo. I politici degli Stati donatori e i palestinesi che facilitano i programmi di finanziamento dovrebbero affrontare il modo in cui “aiuti securizzati” hanno trasformato un movimento di liberazione in un subappaltatore del colonizzatore e portato a tendenze autoritarie che favoriscono la struttura della sicurezza a spese di altri settori (salute, educazione e agricoltura) e della democrazia.
Inoltre in Palestina gli aiuti securizzati e lo sviluppo non solo hanno fallito nel rivolgersi a povertà e disoccupazione ma hanno anche creato nuova insicurezza e illegittimità. I pianificatori di sviluppo devono capire che questi modelli non saranno mai modificati a meno che il popolo, e non la struttura della sicurezza, conduca le danze.
Queste azioni sono un dovere del popolo palestinese, specialmente quando i politici non lo rappresentano. La società palestinese ha bisogno di affrontare i mezzi usati per reprimere la sua mobilitazione e di garantire la realizzazione dei propri diritti fondamentali.
L’iniziativa di giovani apartitica “End Security Coordination” emersa dopo l’assassinio di Basil Al-‘Araj a marzo 2017 rappresenta un esempio di questa mobilitazione. Nell’appello i giovani scrivono: “Il nostro popolo ha combattuto troppo a lungo per noi per restare immobili mentre leader repressivi che barattano la nostra oppressione con i loro interessi personali. Siamo quasi a 30 anni dagli Accordi di Oslo che hanno trasformato quanto restava della nostra terra in prigioni a cielo aperto amministrate da ufficiali dell’Anp non rappresentativi che si sono autoassunti per essere la prima linea di difesa dei nostri colonizzatori. Il regime di Oslo non ci rappresenta. Ora è tempo per noi di metterci insieme e ricostruire la nostra lotta collettiva per la liberazione di tutta la Palestina”.
Se tale resistenza organizzata continuerà e crescerà, la pressione della gente potrebbe essere in grado di modificare la traiettoria del coordinamento alla sicurezza Anp-Israele, rendendo i palestinesi meglio equipaggiati per incamminarsi verso l’autodeterminazione e l’ottenimento dei diritti umani. Nena News
Traduzione a cura della redazione di Nena News